Asclepiade di Samo, Epigrammista del primo ellenismo (III secolo a.C.)

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MAguSS
view post Posted on 27/8/2005, 13:31




Asclepiade ('Asklepiàdes) nacque a Samo negli ultimi decenni del IV secolo a.C.; era certo più anziano di Teocrito, che nelle Talisie lo ricorda con ammirazione sotto il nome di Sicelida. Fiorì intorno al 290 a.C. e fu esponente massimo della scuola ionico-alessandrina dell'epigramma ellenistico. Fu maestro di un circolo di poeti, amanti dell'arte e del simposio, che considerarono un tutto unico amare e cantare nei versi l'amore. Poeta di liriche (si chiamano dal suo nome versi lirici come gli asclepidei maggiori e minori già noti ai poeti di Lesbo) e di epigrammi, da noi è conosciuto per 45 epigrammi (non tutti di sicura autenticità) conservati nell'Antologia Palatina, epigrammi che lo qualificano come grande poeta, il maggiore certamente degli epigrammisti. Nella controversia letteraria che divise Callimaco da altri poeti della sua età, Asclepiade, ammiratore di Antimaco, fu tra gli avversari del poeta di Cirene.
Asclepiade recuperò la centralità del simposio come ambiente naturale della recitazione poetica, erede delle funzioni della poesia lirica arcaica. Ma è un epigramma, il suo, cittadino e smaliziato, che racchiude con lucidità, entro i confini ristretti di una rigorosa brevità, emozioni momentanee e riflessioni nate da quelle emozioni. Il dettato assume forme semplici e spontanee, grazie a uno stile assai sorveglaito e ad un accurato "labor limae".
 
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MAguSS
view post Posted on 27/8/2005, 14:19




Alcuni epigrammi:

Il giuramento sulla lampada
O lampada, tre volte in questa stanza
giurò Eraclea che sarebbe venuta.
Lo giurò su di te. Ma non appare.
Se sei una dea, o lampada, castiga
l'ingannatrice: quando si diverte
qui dentro, nelle braccia dell'amico,
non mandare più luce.


Poeta d'amore che, dell'amore e della poesia come "lusus" amoroso fece i motivi della sua vita, Asclepiade percorse tutti i momenti e gli aspetti della tematica erotica, dando a ciascuno di essi un tono inconfondibile, come a questo della lampada, testimone degli spergiuri di Eraclea. La "pointe" finale chiude con arguzia il breve componimento.

In balìa di Eros
Nevica grandina, suscita tenebre,
risplendi folgora, scuoti le nubi
piene di fuoco su tutta la terra.
Certo, se tu mi uccidi
la finirò: ma, se mi lasci vivo,
anche in mezzo ai pericoli più gravi
continuerò la vita nei piaceri.
Perchè, o Zeus, mi trascina il dio che domina
anche te. Per lui, un giorno,
mutato in oro, forzando pareti
di bronzo, sei giunto a un letto d'amore.


Chiuso il simposio, i convitati escono nella notte in gruppo rumoroso (il "kòmos") e si recano alle case delle loro amate, che spesso restano chiuse. L' "amator esclusus" canta la serenata davanti alla porta chiusa ("paraklausìthuron"). Si tratta di un momento della tematica amorosa noto sin dalla lirica arcaica e assai diffuso nella poesia ellenistica e romana (vedi Lucrezio).

Una serenata
Lunga è la notte, è già inverno, s'inclina alle Pleiadi il cielo;
ed io molle di pioggia m'aggiro alle sue porte,
preso da brama per quella bugiarda; chè Cipridie inflisse
in me feroce dardo di fuoco e non amore.


Esempio di "paraklausìthuron", lamento davanti alla porta chiusa dell'amata, assai in voga durante tutta l'età ellenistica. Ricordiamo Callimaco e, nella poesia latina dell'età augustea, Orazio, Tibullo e Properzio. "Asclepiade di solito non si ferma a dipingere esterni. Gli è ignoto quel senso bucolico della natura, quella riposata gioia di contemplare, che è luogo comune considerare tipico dei poeti ellenistici. Il paesaggio cupo e tempestoso (una notte senza stelle fra raffiche di vento e folate di pioggia) nuovo ed insolito nella poesia antica, è in Asclepiade riflesso di uno stato d'animo, come sarà nella poesia romantica di Lenau o di Novalis, oltre venti secoli dopo." (L.A.Stella, "Cinque poeti dell'Antologia Palatina").

La "Lide" di Antimaco
Lide di nome e di stirpe, in grazia d'Antimaco io sono
fra tutte le nipoti di Codro* la più illustre.
Sì, chi non mi cantò? Chi non lesse la Lide, il poema
a cui posero mano Antimaco e le Muse?

*Mitico re della Lidia

Grandi lodi alla "Lide" di Antimaco, raccolta di elegie del poeta di Colofone (IV sec.) apprezzato anche da Platone. L'opera elegiaca di Antimaco, imitata da Fileta, da Ermenesiatte, da Fanocle, fu invece disprezzata da Callimaco come "opera grossolana, non ben cesellata". Il giudizio callimacheo sarà ripetuto da Catullo in un suo ben noto epigramma.

Giovane, e stanco di vivere
Ahimè, non ho ancora ventidue anni,
e sono stanco di vivere! O Amori,
che cos'è questo tormento? Perchè
mi bruciate? E se morte mi colpisce,
Amori, che farete? Già! Come prima,
giocherete scherzando con i dadi.


"Il poeta comincia proclamando la noia di vivere e termina con un tocco quasi frivolo, col quadro degli Amori che, lui morto, proseguono indifferentemente la partita ai dadi: prende argutamente in giro se stesso? Chi sostiene che Asclepiade con disincantato scetticismo vede l'inutilità o quasi il ridicolo delle grandi tragedie amorose, che l'artisita non si piglia sul serio in posa tragica, dimentica che la vera, struggente malinconia è la malinconia degli anni giovani, che la stanchezza di esistere coglie di solito chi appena entra nell'esistenza. Il lamento non si spegne in un sorriso, non è pretesto per una deliziosa decorazione ornamentale. Asclepiade, vittima senza speranza, è oppresso dall'indifferenza delle cose. Come meglio poteva esprimere questa indifferenza se non raffigurando assente e ottuso il dio che lo perseguita, il suo dio? E' una visione del tutto negativa dell'esistenza: c'è il tedio del poeta, l'opacità, ben determinata, di ciò che lo tormenta. Asclepiade prova il fastidio di vivere, si prospetta i risultati dello scomparire: è più amara scoperta. Nessuna scintilla di gaiezza muta la confessione da sfiduciata in divertita; la punta finale vorrebbe essere leggera: acuisce, invece, una certezza di solitudine." (U.Albini, "Asclepiade di Samo", in "La parola del passato").

Invito a bere
Bevi, Asclepiade. Perchè piangere? Che ti succede?
Non te soltanto ha catturato la dura Afrodite,
non contro te soltanto arma l'arco e le frecce
Amore amaro. Perchè, ancora vivo, giacere sotto la cenere?
Beviamo la forte bevanda di Bacco: il tempo è breve
come un dito*: o forse aspettiamo di vedere la lampada
che ci mandi a dormire? Beviamo, non c'è l'amore,
tra poco riposeremo nella lunga notte

*Allusione a un verso di Alceo

"Il poeta ha subìto una delusione d'amore, piange senza ritegno; tutto è spento intorno a lui, vuoto di significato: unico rimedio, il vino, nella grigia consapevolezza di come effimera sia la nostra vita. E' evidente che in questo epigramma regna lo sconforto. Un amore infelice, lacrime da soffocare nel vino, l'ombra della morte: la sofferenza detta un non equivoco messaggio. Eppure è stato scritto che Asclepiade si incoraggia a non prendere l'amore sul serio, a non scorgere nell'amore altro che una piacevole distrazione della nostra rapida esistenza. Bastava soffermare l'attenzione sull'ultimo verso, per rendersi conto che non c'è nel nostro epigramma frivolezza alcuna o, il che è lo stesso, finzione letteraria: il colloquio del poeta con se stesso reca l'impronta del dolore. Con che si consola il poeta preda di un amore infelice? Con l'invito a bere; sì, ripetuto, martellato quasi, ma soprattutto con l'idea della morte. Ora questa è inquietudine, non accademia. Il senso della inevitabile fine è davvero "la carità degli ultimi veleni": la tristezza domina l'epigramma dall'inizio accorato alla fine cupa. Perchè l'amore è l'elemento su cui poggia il mondo di Asclepiade: come Menandro egli crede nell'amore, vive di esso e per esso. E perdendo l'amore, perde la sua ragione di esistere. La sua disperazione in "Bevi, Asclepiade...." è così vera, perchè vera è, in assoluto, la passione che brucia il poeta". (U.Albini, "Asclepiade di Samo", in "La parola del passato")

Desiderio di annientamento
La vita che mi resta,
poca o molta che sia, lasciate, Amori,
per gli Dèi, che abbia infine un po' di pace;
o non colpitemi più con frecce,
ma con i fulmini,
e riducetemi carbone e cenere,
annientatemi, Amori! Arso così
dal mio dolore, questo chiedo a voi.


"L'amore, intenso ed autentico, può essere vinto solo dall'annientamento, dalla morte: un tema che già conosciamo. Negli epigrammi d'amore di Asclepiade, due note sono assenti. Una è la nostalgia. E si capisce. Legato all' "hic et nunc", Asclepiade ignora il fascino delle memorie, la visione incantata di remote esperienze, rifiuta di immergersi in un astratto, per quanto suggestivo rimembrare. La seconda è la tenerezza, l'affettuosità. Il poeta canta la voluttà e sente la vanità ifninita del piacere, ha sete di vivere e scoramento di vivere, lotta contro l'amore e per l'amore. Ma è chiuso nel breve giro di se stesso. Gli altri, le altre, nella storia d'amore esistono perchè suscitano in lui delle impressioni, destao echi e richiami, permettono il costituirsi di stati d'animo: sono specchi che riflettono giochi di sensazioni dove chi conta è solo il poeta." (U.Albini, "Asclepiade di Samo", in "La parola del passato")
 
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