| Una storiografia "universale" Altra caratteristica distintiva dell'opera polibiana è la prospettiva ecumenica del racconto, che costituisce un superamento dello stesso modello tucidideo, e che lo storiografo di Megalopoli prospetta come una necessità imposta dal prepotente affacciarsi della potenza di Roma sulla scena mediterranea: "il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto più straordinario dei nostri tempi: poichè la sorte rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per i lettori in un'unitaria visione d'insieme il vario operato con cui la Fortuna portò a compimento le cose del mondo. Questa considerazione mi ha soprattutto incitato e indotto alla composizione della storia, e insieme il fatto che nessuno dei nostri contemporanei ha tentato di coordinare in una narrazione unitaria le vicende di tutta la terra abitata....". L'epoca della storiografia politica, l'epoca di Tucidide, è dunque tramontata; e a forzare il cambiamento sono intervenuti due avvenimenti fondamentali, ovvero la conquista e l'ellenizzazione dell'Oriente ad opera di Alessandro Magno, e la conquista e la romanizzazione dell'Occidente ad opera di Roma: due mondi che si fronteggiano in una rete di relazioni che deve essere affrontata dallo storiografo all'interno di un disegno complessivo e con uno sguardo attento alle ripercussioni internazionali degli avvenimenti.
Il "ciclo biologico" delle costituzioni Dimostrandosi figlio dei suoi tempi e del suo mondo, Polibio nel ricercare le ragioni della prepotente affermazione di Roma individua fattori di natura costituzionale, prima ancora che politici o economici. Muovendo dalle premesse elaborate nell'ambito della riflessione platonica e aristotelica, Polibio riprende la distinzione, ormai canonica, delle forme di governo ("politèiai") esistenti in natura: monarchia, aristocrazia, democrazia, ciascuna associata alla propria forma degenerata, ovvero tirannide, oligarchia, oclocrazia (il "governo della massa"). Tali forme si succedono naturalmente all'interno di una sorta di ciclo "biologico" ("anakùklosis"), per cui la monarchia, prima forma di governo, degenera in tirannide per essere soppiantata dall'aristocrazia, che a sua volta si trasforma in oligarchia e lascia il posto alla democrazia; questa, degenerata a sua volta in "governo della massa", l'oclocrazia appunto, crea le condizioni per il ripristino dell'autorità monarchica, sicchè il ciclo si riavvia dal principio. Essendo del tutto naturale questo avvicendamento, così come è naturale che alla giovinezza faccia seguito l'età matura e poi la vecchaia, non esiste di fatto forma di governo, per quanto perfetta, capace di sopravvivere indefinitamente nel tempo. Si danno per la verità, storicamente, alcuni casi nei quali una città si è data una costituzione "mista" ("miktè politeìa"), nella quale appaiono cioè armonizzate le tre forme positive di governo, la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia; Polibio cita in particolare due esempi: la costituzione spartana di Licurog e quella di Roma, evolutasi nel corso dei secoli, nella quale l'autorità monarchica è incarnata dai consoli, quella aristocratica è espressa nel senato, e quella democratica infine si realizza nei "comitia". La costituzione mista gode di maggiore stabilità rispetto alle singole forme pure, e tuttavia anch'essa è naturalmente destinata alla senescenza, al declino e alla morte: Roma va costruendo il più grande e solido impero della storia umana, ma anche Roma conoscerà un giorno la decadenza e la fine.
La dimensione metastorica Come abbiamo osservato, a differenza di Erodoto e di quanti, anche fra i Romani, avevano concepito la storia dell'umanità come inserita all'interno di un preciso disegno divino, finalisticamente orientato, Polibio tende a ridurre all'immanenza dei "pràgmata" politico-militari le sorti degli stati come degli individui; semmai la religione appare nella sua opera come formidabile "instrumentum regni" ("quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo stato..."). Pure, nella sua visione sostanzialmente razionalista del mondo e della storia, l'irrazionale fa capolino attraverso il ruolo della "Tùke", il Fato, il cui influsso sulle vicende umane neppure Polibio può negare. E che non si tratti solo di una concessione alla mentalità del tempo lo testimoniano i passi in cui lo storiografo riflette con assoluta serietà sul rapporto tra sorte e virtù, costituendo anche per questo aspetto un antecedente del pensiero rinascimentale: in particolare Machiavelli, per tanti versi erede dell'elaborazione polibiana, specialmente nei suoi "Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio", a quasi diciassette secoli di distanza, riproporrà il problema in modo sostanzialmente analogo, vedendo nella "fortuna" quella variabile incognita che l'uomo deve sempre tenere in considerazione nel suo progettare, e contro la quale la virtù deve armarsi a porre riparo, in una visione antropocentrica in cui il senso del limite intrinseco alla condizione dell'uomo non giunge mai a paralizzarne l'iniziativia.
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