Polibio (205 a.C. - 123 a.C.)

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MAguSS
view post Posted on 13/9/2005, 13:56




La vita e l'opera

Polibio (Polùbios) nacque a Megalopoli in Arcadia intorno al 205 a.C. Suo padre Licorta, amico di Filopèmene, esercitò più volte la massima magistratura della Lega achea, quella di stratego. Il giovane Polibio ebbe così modo di fare esperienza politico-diplomatica e militare, entrando a far parte in giovane età della classe dirigente della Lega achea. Nel 183 ebbe l'onorifico incarico di riportare in patria le ceneri di Filopèmene, avvelenato in Messenia.
Nel 169 Polibio era ipparco, capo della cavalleria, ricopriva cioè la seconda carica della Lega, quando la guerra tra Romani e Macedoni pose il suo partito di fronte a una scelta decisiva; tale partito però, nel momento supremo, eluse la scelta preferendo una politica di poco accorta neutralità. Quando, dopo la vittoria di Lucio Emilio Paolo a Pidna su Perseo, ultimo sovrano macedone, il partito filo-romano prevalse nelle città della Lega, mille Achei del partito filo-macedone e di quello indipendentista di Polibio furono chiamati a Roma per discolparsi delle accuse mosse contro di loro dai loro stessi compatrioti, favorevoli ai ROmani; fra gli accusati c'era anche Polibio. I mille Achei, tenuti come ostaggi, furono confinati nei vari municipi italici: Polibio, che a Megalopoli aveva conosciuto Emilio Paolo, fu accolto nella casa di quest'ultimo, diventando amico e consigliere dei suoi figli, Fabio Massimo e Scipione Emiliano, come egli stesso racconta con profonda partecipazione emotiva, raramente riscontrabile nella narrazione asciutta che caratterizza la sua opera. Il sodalizio con Scipione e con altri esponenti dell'aristocrazia senatoria fu decisivo per Polibio che, da avversario, divenne ammiratore di Roma e storico della sua grandezza. Iniziò da allora numerosi viaggi in Italia e fuori, finchè nell'anno 150, insieme con gli altri Achei superstiti, ebbe il consenso di tornare in Grecia. I rapporti con Scipione rimasero però frequenti: nel 146 era con lui quando Cartagine fu distrutta.
Dopo la distruzione di Corinto, seguita a un estremo tentativo insurrezionale, da lui deplorato, Polibio operò efficacemente per alleviare le sventure della patria in rovina.
Accompagnò ancora Scipione nel 134 nella spedizione contro la città iberica di Numanzia.
Morì in patria ad 82 anni per una caduta da cavallo.
Le "Storie" ("Istorìai") di Polibio in 40 libri coprivano, attraverso successivi ampliamenti, il periodo storico che dal 264 (inizio della prima guerra punica), andava fino al 144 a.C. Di esse ci sono giunti integri i primi cinque libri e ampi estratti dei libri VI-XVIII; degli altri libri, i frammenti più cospicui sono costituiti dagli "excerpta", inclusi nella raccolta storica dell'imperatore bizantino Costantino Porfirogenito (912-959). L'esposizione degli avvenimenti di tipo annalistico era interrotta da libri digressivi, come il sesto, dedicato a un'analisi della costituzione e dell'organizzazione politico-militare di Roma, il dodicesimo, che attraverso le critiche a storici precedenti e soprattutto a Timeo definisce e chiarisce il metodo storiografico dello storico, il trentaquattresimo, dedicato a una descrizione geografica del mondo mediterraneo. L'ultimo libro conteneva, infine, un quadro riassuntivo di tutta l'opera.
 
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MAguSS
view post Posted on 14/9/2005, 23:09




La visione storica di Polibio
All'interno del panorama complessivo della storiografia ellenistica, l'opera di Polibio si segnala per alcuni caratteri distintivi di rilevanza straordinaria. Cosciente della propria originalità e convinto della validità della propria impostazione ideologica e metodologica, egli in più luoghi (sovente polemizzando con altri storiografi secondo un uso tipicamente ellenistico) coglie l'occasione per ribadire le proprie convinzioni e la propria visione di una storiografia "pragmatica" ed "ecumenica", impostata scientificamente sulla base della diretta "esperienza" e di un rigoroso "vaglio critico delle fonti", e finalizzata a investigare con minuziosa precisione le "cause" degli eventi, inseriti all'interno di una dinamica storica che ha nell' "evoluzione circolare organica" delle forme di governo la propria giustificazione universale.

Una storiografia pragmatica
Polibio ribadisce fin dal proemio dell'opera la propria volontà di aderire a una interpretazione rigorosamente "pragmatica" della storiografia ("è pragmatikè istorìa") in quanto unica realmente "utile" in vista del fine che ogni storiografo deve assumere per la propria opera, che è poi quello di educare il lettore alla vita politica (Polibio dichiara che lo studio della storia è la migliore palestra e preparazione all'attività politica). Se dunque la storia, come "magistra vitae", ha funzione pedagogica e non semplicemente informativa, fondamentale diventa l'esigenza di obiettività nella ricostruzione degli eventi ("pràgmata") militari, diplomatici, politici, istituzionali, mentre netto è il rifiuto per tutto quanta riguarda il regno del "mùthos". Per "mùthos" si deve intendere sia il repertorio tradizionale delle vicende legate a Dèi ed eroi, sia l'aneddotica di tradizione orale già presente in Erodoto ma più di recente rinnovata dalla storiografia legata alle imprese di Alessandro Magno.

Una storiografia obiettiva e "scientifica"
Un fine tanto ambizioso non può evidentemente essere perseguito se non attraverso una rigorosa impostazione metodologica che privilegi un approccio di tipo "scientifico", fondato sull'esigenza primaria dell'obiettività. In questo modo Polibio contravviene almeno in parte alla concezione prevalente nel mondo antico, che nel genere storiografico vedeva innanzitutto una forma d'arte. La ricerca di obiettività dello storico di Megalopoli richiama dunque più da vicino Tucidide, anche se manca in Polibio (nè potrebbe essere altrimenti) il grandioso respiro tragico che permea l'opera dell'ateniese. Il nostro autore afferma che requisiti fondamentali per qualunque operazione storiografica sono il possesso di una solida e personale esperienza ("empeirìa"), un vaglio attento delle fonti ("marturìai") e un'analisi accurata delle cause ("aitìai") degli eventi.

a)Empeirìa: in polemica con quanto egli definisce spregiativamente "storiografi da biblioteca" (paragonati sarcasticamente a quanti "pretendono di guidare una nave in base ai precetti dei libri") Polibio ribadisce come concetto imprescindibile, per chi voglia dedicarsi alla storiografia pragmatica, la conoscenza diretta della politica e l'esperienza militare: "Chi non ha pratica delle cose militari, non sa descrivere come si conviene quanto avviene in battaglia; lo stesso accade per le vicende politiche a chi non ha di esse diretta esperienza. Se lo scrittore è nutrito di una cultura teorica ed è privo di conoscenza diretta, la sua opera riesce inutile ai lettori".

b)Martyrìai: sempre al fine ultimo dell'utilità didascalica risponde anche l'esigenza di sottoporre a vaglio attento le fonti, che per Polibio sono sostanzialmente tre; in primo luogo l' "autopsìa", la "visione diretta" degli eventi o perlomeno dei luoghi ("visita alle città, alle regioni... osservazione diretta delle caratteristiche dei fiumi, dei porti, della natura delle terre e dei mari, delle distanze fra le singole località"); quindi i documenti scritti ("gràmmata") e infine le testimonianze orali ("akoaì"), la cui veridicità andrà ovviamente accertata attraverso critica severa e rigorosi confronti incrociati ("studio diligente dei documenti e delle memorie e... confronto del materiale che se ne può ricavare").

c)Aitìai: ancora all'esigenza di massima obiettività nella ricostruzione e nel giudizio sugli eventi vanno ricondotte le professioni di imparzialità così frequenti in Polibio ("astraendo dunque da chi le compie, nello scrivere la storia bisogna giudicare e valutare senza parzialità le azioni di ciascuno"), nonchè l'esigenza, che lo storico più volte ribadisce, di operare un'analisi accurata delle cause degli eventi. Ancora in questo caso Polibio rivela la propria dipendenza dal modello tucidideo, ma lo fa con un'originalità apparente che è rivelatrice della profonda differenza fra lo storico ateniese e il suo emulo di Megalopoli. Già Tucidide aveva distinto due livelli di cause, ovvero l' "aitìa", intesa come causa recente e occasionale di un evento, e la "pròphasis", la causa reale e celata, che risale spesso assai indietro nel tempo. Polibio ribalta i riferimenti terminologici, trasformando l' "aitìa" nella causa reale o remota e introducendo l' "arkè" come principio dell'evento ("secondo me sono principio di un'impresa i primi tentativi e le prime azioni di chi abbia già deciso un suo piano, mentre per cause intendo quanto precede le decisioni e i piani, cioè le circostanze, le disposizioni degli animi, i calcoli che si fanno sulle situazioni e tutto ciò per cui giungiamo alle decisioni e ai progetti"), mentre la "pròphasis" è ridotta a giustificazione pretestuosa degli avvenimenti che peraltro costituisce la comune accezione del termine.
 
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MAguSS
view post Posted on 15/9/2005, 12:20




Una storiografia "universale"
Altra caratteristica distintiva dell'opera polibiana è la prospettiva ecumenica del racconto, che costituisce un superamento dello stesso modello tucidideo, e che lo storiografo di Megalopoli prospetta come una necessità imposta dal prepotente affacciarsi della potenza di Roma sulla scena mediterranea: "il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto più straordinario dei nostri tempi: poichè la sorte rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per i lettori in un'unitaria visione d'insieme il vario operato con cui la Fortuna portò a compimento le cose del mondo. Questa considerazione mi ha soprattutto incitato e indotto alla composizione della storia, e insieme il fatto che nessuno dei nostri contemporanei ha tentato di coordinare in una narrazione unitaria le vicende di tutta la terra abitata....".
L'epoca della storiografia politica, l'epoca di Tucidide, è dunque tramontata; e a forzare il cambiamento sono intervenuti due avvenimenti fondamentali, ovvero la conquista e l'ellenizzazione dell'Oriente ad opera di Alessandro Magno, e la conquista e la romanizzazione dell'Occidente ad opera di Roma: due mondi che si fronteggiano in una rete di relazioni che deve essere affrontata dallo storiografo all'interno di un disegno complessivo e con uno sguardo attento alle ripercussioni internazionali degli avvenimenti.


Il "ciclo biologico" delle costituzioni
Dimostrandosi figlio dei suoi tempi e del suo mondo, Polibio nel ricercare le ragioni della prepotente affermazione di Roma individua fattori di natura costituzionale, prima ancora che politici o economici. Muovendo dalle premesse elaborate nell'ambito della riflessione platonica e aristotelica, Polibio riprende la distinzione, ormai canonica, delle forme di governo ("politèiai") esistenti in natura: monarchia, aristocrazia, democrazia, ciascuna associata alla propria forma degenerata, ovvero tirannide, oligarchia, oclocrazia (il "governo della massa"). Tali forme si succedono naturalmente all'interno di una sorta di ciclo "biologico" ("anakùklosis"), per cui la monarchia, prima forma di governo, degenera in tirannide per essere soppiantata dall'aristocrazia, che a sua volta si trasforma in oligarchia e lascia il posto alla democrazia; questa, degenerata a sua volta in "governo della massa", l'oclocrazia appunto, crea le condizioni per il ripristino dell'autorità monarchica, sicchè il ciclo si riavvia dal principio. Essendo del tutto naturale questo avvicendamento, così come è naturale che alla giovinezza faccia seguito l'età matura e poi la vecchaia, non esiste di fatto forma di governo, per quanto perfetta, capace di sopravvivere indefinitamente nel tempo.
Si danno per la verità, storicamente, alcuni casi nei quali una città si è data una costituzione "mista" ("miktè politeìa"), nella quale appaiono cioè armonizzate le tre forme positive di governo, la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia; Polibio cita in particolare due esempi: la costituzione spartana di Licurog e quella di Roma, evolutasi nel corso dei secoli, nella quale l'autorità monarchica è incarnata dai consoli, quella aristocratica è espressa nel senato, e quella democratica infine si realizza nei "comitia". La costituzione mista gode di maggiore stabilità rispetto alle singole forme pure, e tuttavia anch'essa è naturalmente destinata alla senescenza, al declino e alla morte: Roma va costruendo il più grande e solido impero della storia umana, ma anche Roma conoscerà un giorno la decadenza e la fine.


La dimensione metastorica
Come abbiamo osservato, a differenza di Erodoto e di quanti, anche fra i Romani, avevano concepito la storia dell'umanità come inserita all'interno di un preciso disegno divino, finalisticamente orientato, Polibio tende a ridurre all'immanenza dei "pràgmata" politico-militari le sorti degli stati come degli individui; semmai la religione appare nella sua opera come formidabile "instrumentum regni" ("quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo stato..."). Pure, nella sua visione sostanzialmente razionalista del mondo e della storia, l'irrazionale fa capolino attraverso il ruolo della "Tùke", il Fato, il cui influsso sulle vicende umane neppure Polibio può negare. E che non si tratti solo di una concessione alla mentalità del tempo lo testimoniano i passi in cui lo storiografo riflette con assoluta serietà sul rapporto tra sorte e virtù, costituendo anche per questo aspetto un antecedente del pensiero rinascimentale: in particolare Machiavelli, per tanti versi erede dell'elaborazione polibiana, specialmente nei suoi "Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio", a quasi diciassette secoli di distanza, riproporrà il problema in modo sostanzialmente analogo, vedendo nella "fortuna" quella variabile incognita che l'uomo deve sempre tenere in considerazione nel suo progettare, e contro la quale la virtù deve armarsi a porre riparo, in una visione antropocentrica in cui il senso del limite intrinseco alla condizione dell'uomo non giunge mai a paralizzarne l'iniziativia.
 
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