| Alcuni degli epigrammi più belli e significativi:
Gli ottant'anni di Clitòne E' di Clitòne l'esigua casupola e il piccolo fondo seminativo, e accanto la magra vigna e questo ciuffo di stenti alberelli: eppure con tali risorse Clitòne ha sostentato i suoi bravi ottant'anni.
Epigramma sepolcrale o pseudo-sepolcrale del poeta randagio, che conobbe la povertà, per un povero contadino. "Leonida è poeta ellenistico nel senso storico, più pieno e rigoroso. Cultore sapiente, costruttore esperto di simmetrie verbali e strutturali, Leonida ha dato all'epigramma ellenistico, fulgidamente fiorito nelle officine di Cos o di Alessandria, un'andatura nuova e un contenuto nuovo. Soggiogato all'inizio della sua attività dalla soavità arcadica dei paesaggi di Anite o di Moiro, non dissolve la sua sensibilità in un mero rispecchiamento di formule e motivi arcadici, ma gradatamente trasferisce in quell'Arcadia formale e decorativa motivi profondi della sua anima, la sua malinconia virile, il senso reale della vita laboriosa e dolorosa, la consapevolezza dell'inutilità di paradigmi mitici o religiosi o tradizionali, la coscienza della vitalità eroica degli uomini del suo tempo: degli Odisseidi che muoiono naufraghi nel Mar Ionio o nel Mar Libico, dei pastori e dei caprai che chiedono ai loro Dèi favori proporzionati alle loro offerte, [...] del contadino che offre al suo dio i prodotti con cui compra cavoli e latte. Questa è l'Antiarcadia che consapevolmente e soffertamente Leonida inserisce nella campagna, che egli ereditava da Anite come puro gioco d'arte, come raffinata filigrana. Quel paesaggio si muta nelle sue mani e diviene sua creazione, perchè lo permea della sua sensibilità, del suo pathos di povero vagabondo: nel canto di questa Antiarcadia Leonida dispiega la sua tecnica dotta e precisa, senza squilibrio e senza renitenza, sciogliendo nella novità della sua poesia il nodo della miseria e dell'angustia quotidiana". (M.Gigante, "L'edera di Leonida").
Le spoglie di Sòcari Una bisaccia, una pelle di capro tutt'ispida e secca, un bastone compagno di viaggio, un'ampolla non mai pulita, una borsa non mai visitata da un soldo, un berretto riparo d'una zucca pelata, ecco le spoglie di Sòcari, alla cui morte la Fame tutte le appese a questo sterpo di tamerice.
Epigramma dedicatorio che è, in realtà, un epitimbio per Sòcari, giunto al termine di una vita povera e stentata. L'immagine conclusiva della Fame, compagna di tutta la sua vita, ritratta mentre premurosa appende le sue misere cose alla tamerice, è tocco di un'arguzia assieme divertita e commossa.
Qui i topi non rosicchiano Via dalla mia tana, topo notturno: nella misera dispensa di Leonida c'è poco. Una presa di sale e due pani d'orzo: la dieta che i mei avi mi lasciarono; e di questa mi vanto. E allora perchè piccolo goloso frughi in questo buco? Qui non ci sono avanzi di banchetti. Fila in altra casa (io ho povere cose): là troverai grande abbondanza.
"Non so perchè non ci si debba ancora accorgere, ad esempio, che quella stessa graziosa favoletta leonidea sui "topolini commensali del mendico" non può significare una semplice annotazione realistica ed autobiografica del poeta povero, ma DEVE invece essere riconosciuta per quella che è: una modesta e poco originale frangia di quella già nota, insistente, grossa favola da ricchi, che consisteva nell'idealizzazione mitizzante della miseria. Piccola frangia del mantellone filosofico cinico, allora tanto di moda: non già rivelatore, ma anzi dissimulatore della miseria e dei suoi problemi. Diogene possiede e gode più di Alessandro, perchè chiede meno, anzi non chiede nulla, se non un raggio di sole - dice l'aforisma cinico - e Leonida, nella sua favoletta in versi, accennava a sapersi contentare di due pani e un pizzico di sale: patrimonio ereditario". (G.Lombardo Radice, "Leonida Tarentino, poeta ricco"). Il tema dei topi all'attacco delle provviste dei poveri è presente anche nell'Epinicio per Berenice" di Callimaco, in cui è introdotta la vicenda di Eracle ospite del povero Molorco.
"Ricorda di che paglia sei fatto" Infinito fu il tempo, uomo, prima che tu venissi alla luce, e infinito sarà quello dell'Ade. E quale parte di vita qui ti spetta, se non quanto un punto, o, se c'è, qualcosa più piccola d'un punto? Così breve la tua vita e chiusa, e poi non solo non è lieta, ma assai più triste dell'odiosa morte. Con una simile struttura d'ossa, tenti di sollevarti fra le nubi nell'aria! Tu vedi, uomo, come tutto è vano: all'estremo filo, già c'è un verme sulla trama non tessuta dalla spola. Il tuo scheletro è più tetro di quello d'un ragno. Ma tu, che giorno dopo giorno cerchi in te stesso, vivi con lievi pensieri, e ricorda solo di che paglia sei fatto.
"Suona in questi versi una nota dell'antico Simonide Amorgino che già sentì l'amara tristezza di quest'attimo impercettibile fra due abissi infiniti, e vi è pure probabilmente una risonanza della predicazione morale cinica che ancora, alcuni secoli più tardi, Marco Aurelio ripercorrerà nelle sue Memorie." (E.Bignone, "L'epigramma greco")
Sepolto in terra e in mare Sono sepolto in mare e sulla terra. Fatto singolare accaduto a me, Tharsys figlio di Carmide, secondo la volontà delle Moire. Mi ero gettato nello Jonio in cerca dell'ancora pesante, e scendendo nell'acqua l'avevo portata in salvo. Ma quando risalivo dall'abisso e le mani allungavo già agli altri marinai fui divorato. Un mostro enorme, orribile mi aveva preso ingoiandomi fino all'ombelico. Tolsero allora i marinai dall'acqua una mia metà, gelida zavorra: l'altra l'aveva trascinata via il pescecane. O viandante, su questa spiaggia i compagni hanno sepolto i resti di Tharsys che non tornò più in patria.
Ancora un esempio del gusto di Leonida per i temi macabri: qui abbiamo l'epicedio per un pescatore mezzo ingoiato da un pescecane, sepolto quindi metà in terra, metà in mare, nel ventre dello squalo che l'ha ucciso.
Non logorarti Uomo, non logorarti a condurre una vita errabonda; a trascinare il tuo corpo di terra in terra non logorarti. A te sia ricovero nudo tugurio, cui riscaldi la fiamma d'umile focherello; pur se ti è pane una rozza focaccia di grossa farina impastata in un coccio con le tue stesse mani, e companatico un filo di timo o di menta, con qualche chicco di sale, amaro e dolce condimento
A mio avviso uno degli epigrammi più belli, profondi e significativi. "Qui il poeta, pur muovendo da gesti suoi quotidiani, nel suo ambiente, non fa nè confessione diaristica "romantica", nè documentario "realistico" sulla miseria; non descrive cibi, ma ci comunica il sapore stesso della vita, quando essa è nuda, essenziale. Anche qui, come nel Pascoli, vocaboli popolari e ambiente domestico non significano nè poesia popolare nè poesia realistica: tutt'altro. La sola immagine che l'epigramma vitalizzi è quella di un uomo che elabora una ricchezza interiore in una cornice di miseria" (G.Lombardo Radice, "Leonida Tarentino, poeta ricco").
Il lamento dell'esule Molto lontano dormo dalla terra d'Italia e dalla mia patria, Taranto. Questo è per me più amaro della morte. Tale è la vana vita d'ogni nomade. Ma le Muse mi amarono, e per tutte le mie sventure mi diedero in cambio la dolcezza del miele. Il nome di Leonida non è morto. I doni delle Muse lo tramandano per ogni tempo
Stupendo epigramma. Leonida trova gli accenti di Teognide per esprimere la sua nostalgia d'esule. Ma di fronte all' "àbios bìos" c'è l'orgoglio del poeta, certo che il suo nome non perirà.
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